Slow News racconta una storia che ci riguarda tutti, di questo sono profondamente certo e in queste note di regia, molto personali, provo a spiegare il perché.
Quando ho pensato per la prima volta a girare questo documentario ero arrivato ad un punto cruciale della mia vita di giornalista, regista, padre, persona. Ogni giorno, da vent’anni, lavoro e vivo con i contenuti. Scrivo, giro, leggo, guardo, racconto storie ai miei figli. Ogni giorno come tutti, sono letteralmente sommerso dai contenuti: parole, immagini, suoni mi raggiungono in ogni momento della mia esistenza.
È un percorso che sembra irreversibile e irresistibile, verso un intrattenimento infinito, un’informazione senza soluzione di continuità. Non mi ricordo più dove ho letto per la prima volta una notizia, e questo le toglie il valore che aveva un tempo. Non trovo alcuna soddisfazione nel seguire una diretta su una breaking news, né da giornalista né da lettore o spettatore. Anzi: provo ansia e fastidio per i toni apocalittici usati e per il senso di frustrazione quando mi rendo conto che i fatti che si devono trattare sono materia troppo volatile per maneggiarli in maniera seria.
Da professionista, mi sono reso conto che tutti si sono trasformati in potenziali produttori e broadcaster. Si producono contenuti quanti non se ne sono mai prodotti prima, a costi sempre più bassi: sono diventati una commodity. Da persona che usa i social network, guarda la televisione, legge, non sopporto più l’intrattenimento che si mescola all’informazione giornalistica. E il sovraccarico informativo è spaventoso: in sessanta secondi vengono prodotti e disseminati una quantità di contenuti che il cervello umano non può elaborare. Come faccio a pensare che un mio film, una mia foto, un testo, possano davvero competere in termini di attenzione con tutto quel che viene scritto, fotografato e girato?
Il tempo è l’unica ricchezza che abbiamo e i contenuti si espandono a occuparlo quanto più possibile. I contenuti sono gassosi.
Questo flusso ininterrotto ha delle conseguenze sul mondo in cui viviamo, sulla società, sui nostri comportamenti. L’ansia da breaking genera convinzioni che poi si consolidano a lungo termine: ci sono persone che pensano davvero che a un profugo vengano regalati soldi tutti i giorni. Che a Monaco di Baviera a sparare nel fast food fosse un militante dell’Isis. Ma per molti anni siamo stati convinti che in Iraq ci fossero le armi di distruzione di massa. E per secoli che la donazione di Costantino fosse vera.
In questo scenario, il giornalismo contemporaneo ha responsabilità enormi e avrebbe una sfida straordinaria da affrontare ma preferisce arroccarsi dietro a rendite di posizione, preferisce dare tutta la colpa ai social network o ai lettori ignoranti o a chissà quale altro nemico.
Così, ecco le domande che ho cominciato a farmi.
Questo news feed ininterrotto è tossico? Quantità e velocità si possono fermare? Dobbiamo davvero essere ossessionati dai “click”, da quanti lettori ci leggono, da quante persone ci conoscono, dai “like”? Viviamo davvero nell’era della post-verità? Che cosa sono le fake news? Ce le siamo inventate con il web? È tutta colpa di Facebook se si diffondono le bufale? E il giornalismo ha perso il suo ruolo sociale? Si può mettere un freno al flusso, alla diffusione virale di questioni irrilevanti o scorrette? Quali sono gli anticorpi sociali che possiamo creare? E poi, perché tutto questo dovrebbe interessare a chiunque?
L’ultima domanda ha una risposta facile ed è da quella che dobbiamo partire: deve interessare a chiunque perché conoscenza significa potere e libertà. E perché una massa informe di contenuti diluisce, rende sempre più difficile, quasi impossibile la conoscenza. Ma paradossalmente ciò accade in particolare sul web: in quella porzione di realtà che contiene anche le opportunità per costruire un’alternativa.
Ecco allora creativa che mi ha spinto a immaginare questo documentario. È un’urgenza che ha molto a che fare con la vita vera, con le persone, con le parole e le immagini e le conseguenze che parole e immagini hanno su tutti noi. In altre parole è un’urgenza vitale.
Slow News è una storia contemporanea, uno sguardo sulla realtà. È un film documentario analitico, con una parte destruens e una parte construens: nasce dalla consapevolezza del fatto che il digitale è fra le concause della crisi del giornalismo. Ma al tempo stesso è nel digitale che si trovano le possibilità per uscire da questa crisi, perché il web è un’ecosistema e, come tutti gli ecosistemi, contiene al suo interno prede e predatori, problemi e soluzioni. Perché il digitale è parte della realtà e come tale non va demonizzato.
Slow News è un viaggio intorno al mondo, alla ricerca di tutte quelle realtà giornalistiche che hanno scelto di rallentare o di essere “virali responsabilmente”.
Visivamente, narrativamente, ma anche come linguaggio filmico, Slow News propone attraverso il flusso di immagini l’enorme quantità di stimoli che riceviamo quotidianamente, distrugge le cattive pratiche giornalistiche, la loro insensata velocità e le loro drammatiche conseguenze, con un montaggio realistico, serrato, incalzante. Al tempo stesso costruisce senso e spazi di riflessione con aperture, momenti più ariosi, campi lunghi, inquadrature che creano luoghi temporali dove fermarsi e riflettere. Proprio come i fautori dello slow journalism nel mondo hanno creato un movimento – a tratti inconsapevole – che si ferma e fa della lentezza e dell’approfondimento un valore, l’unico da perseguire.
Sfuggendo a intenti manicheisti, si propongono comunque due mondi contrapposti: quello dell’informazione lenta e quello dei social e dei grandi player della Silicon Valley, che ambiscono ad un ruolo sempre più pervasivo nelle vite di ciascuno di noi, che monetizzano anche gli “user generated content”, che monopolizzano la scoperta dei contenuti e il viaggio delle persone, dei consumatori, su tutto il web. In mezzo ci sono i giornali che si sono ritrovati schiacciati da un modello di business che li costringe – per scelta, sia chiaro, e per mancanza di volontà o di forza di adattarsi in maniera resiliente al cambiamento – a inseguire la quantità piuttosto che la qualità, i click, i lettori mordi-e-fuggi, il tutto a scapito del valore aggiunto.
Senza cedere a risentimenti o a semplificazioni banalizzanti, l’intento è quello di proporre uno spaccato della realtà su un tema cruciale come quello dell’informazione, raccontare lo stato dell’arte e proporre un modello radicalmente diverso da quello che è andato imponendosi nel mondo occidentale e che si sta rivelando con il fiato corto.
Credo che ci sia bisogno di parlare di questi temi non agli addetti ai lavori, ma al pubblico, a quei lettori sempre più spaesati di fronte all’invasione di contenuti superflui, non verificati, mediocri, quando non assolutamente insignificanti, inutili, addirittura dannosi.
Slow News è qualcosa più di un titolo, di un marchio, di un’etichetta, di un documentario.
È un modo di pensare, di affrontare la contemporaneità guardando al futuro e senza perdere quel che di buono abbiamo avuto dal passato.
Alberto Puliafito