Ci sono molte cose da dire sul tema delle cosiddette fake news. Una delle cose da dire, per esempio, è che non ce le siamo inventate su internet, che non è colpa di Facebook, che esattamente come sono aumentate quantità e velocità, allo stesso modo sono aumentate le possibilità e gli strumenti per verificare (si veda, per dire, il Verification Handbook, la cui traduzione in italiano è stata curata grazie agli abbonati di Slow News).
In questa lunga conversazione radiofonica ne ho parlato con Alessio Ramaccioni e Valentino De Luca, all’interno di Anubi, trasmissione su Radio città aperta. Abbiamo toccato molti temi, abbiamo cercato di uscire dagli schemi e di approfondire. Di una cosa siamo sicuri: bisogna rallentare. Bisogna recuperare il valore del giornalismo, prima ancora di andare a capire quali sono i tool da utilizzare. Gli strumenti passano, cambiano, si evolvono esattamente come la tecnologia, come la vita.
Ma i principi – quelli che, per motivi incomprensibili, a molti sembrano solo teoria – sono quelli che restano.
Anche questa lotta alle fake news, fra l’altro, ha il suo lato oscuro e potrebbe portare a pericolosissime derive autoritarie: preferisco che sia possibile che una notizia falsa si possa diffondere o preferisco che ci sia qualcuno che, a monte, controlli il contenuto dell’informazione aprioristicamente? E chi controlla il controllore? Proprio per questo, su Slow News, spiegavo che la battaglia contro le fake news nasconde rischi che sarebbe meglio non dover affrontare e che invece ci presenteranno il conto.
Le bufale sono vecchie quanto l’umanità. Secondo il sito hoaxes.org, la prima documentata è la donazione di Costantino. Di cosa parliamo, allora, quando parliamo di fake news, di cosa dovremmo preoccuparci?
Il punto, allora, sta altrove. Sta nel fatto che il giornalismo deve fare quello che si propone: raccontare i fatti mettendo tutto in discussione, stabilire un metodo, trovare il modo di rimettere il lettore al centro – che non significa fare l’ennesima rubrica di lettere al giornale – e scappare da un modello di business folle, quello della caccia al click per soddisfare le esigenze dell’advertising, per cercare e trovare altre leve che possano rendere sostenibile il giornalismo di qualità.